Renzo Franchi, il batterista colligiano alla corte dei Litfiba

Quando Francesco Calamai, primo batterista dei Litfiba, dovette fermarsi per un’infiammazione al tendine di una mano, nella cantina fiorentina al 32 di via de Bardi arrivò un giovanissimo Renzo Franchi, chiamato da Ghigo Renzulli

Quando Francesco Calamai, primo batterista dei Litfiba, dovette fermarsi per un’infiammazione al tendine di una mano, nella cantina fiorentina al 32 di via de Bardi arrivò un giovanissimo Renzo Franchi, chiamato da Ghigo Renzulli, con il quale aveva già suonato nei Cafè Caracas. Il terzo componente della band era Raffaele Riefoli, ovvero Raf. Nel giugno del 1980 i Cafè Caracas furono chiamati ad aprire il concerto bolognese dei Clash, in piazza Maggiore, dando di fatto il “la” al movimento new wave italiano.

L’esperienza di Renzo Franchi con i Litfiba durò all’incirca tre anni. Anni di registrazioni, concerti live e gratificazioni artistiche ma purtroppo non economiche, per cui il giovane colligiano dovette lasciare piatti e tamburi per assumersi le sue responsabilità nei confronti della famiglia che nel frattempo aveva creato.

“Arrivai primo su cinquemila a un concorso per insegnanti elementari così potei scegliere dove andare - racconta Renzo Franchi - scelsi il posto in cui non andava nessuno, la comunità cinese di San Donnino. Allora, nell’88, non c’era nulla. Non c’erano programmi, strategie, protocolli, niente. Mi dovetti inventare tutto da zero. Ci sono rimasto trentacinque anni”.

“Per me quella è stata la salvezza economica - continua - e mi ha permesso di prendere sul serio, pur lavorando, lo studio della batteria, cosa che continuo a fare tutt’ora a settant’anni appena compiuti”.

Nel frattempo Franchi, dalla new wave e dal rock più scatenato, ha virato verso il jazz, seguendo un proprio percorso evolutivo.

“Negli anni ‘80, quando mi chiamavano a suonare Litfiba, Café Caracas, Neon, Ottavo Padiglione, Raf, Diaframma, io mi meravigliavo, perché non sapevo fare nulla. Ma suonavo fisicamente ed era quello che era richiesto allora. Seguivo il ritmo, d’altra parte venivo dalle balere”.

Nonostante a Colle Val d’Elsa sia rimasto “quello che ha suonato con i Litfiba”, Renzo Franchi non si è mai sentito del tutto in sintonia con quel mondo.

“Le divergenze erano soprattutto sociali. Io sono figlio di operai, nato il primo luglio del ‘53 in Sant’Agostino, a un anno già costretto ad emigrare a Lodi, dove mio padre trovò lavoro in ferrovia. I musicisti venivano da famiglie della media borghesia. Invece mi trovavo bene con Gianni Maroccolo, figlio di un carabiniere, e con Ghigo Renzulli, di famiglia contadina”.

Nella metà degli anni ‘50 il piccolo Renzo si trova così a trascorrere lunghe ore in treno tra Lodi e Colle.

“Colle l’ho conosciuta dai racconti di mio padre. Di quei viaggi mi è rimasta attaccata addosso tutta la vita un’immagine neorealistica, quella delle valigie legate con la corda, piene di pane, olio e altre cose buone che portavamo dalla Toscana in Lombardia”.

L’ambiente dei contadini e degli operai continuerà ad esercitare la sua attrazione per Renzo.

“È da loro che ho appreso una cultura vecchio stampo, da comunista autodidatta, anarchica, una cultura disordinata, basata più sulla curiosità che su basi reali. Il mio maestro di pensiero è stato un pittore, Stefano Malevoli, che stava dopo la Signora Anna (luogo colligiano vicino al vecchio campo sportivo, ndr). Da adolescente ci andavo per imparare che cosa leggere e cosa guardare. C’era stato il ‘68, lui se usciva andava a Parigi, in India, in Perù. Altri maestri sono stati Giampiero Muzzi, il fotografo, Gistri e altri operai colti dall’auto formazione rigorosa comunista, un vero esempio per noi giovani”.

La passione musicale scoppia alla fine degli anni ‘60.

“Imparai a suonare la batteria da autodidatta e suonavo nei locali da ballo della Toscana, in case del popolo in cui spesso c’era una sola lampadina che ciondolava dal soffitto. Poi finii a far parte della new wave fiorentina. Un fenomeno sopravvalutato, secondo me, ma intanto io c’ero. La cantina di via de Bardi era di un nobile decaduto, il conte Capponi. Me lo ricordo che veniva a riscuotere la pigione. A Firenze il rock c’era già dal Dopoguerra, così come il jazz, lo swing, i ritmi sincopati degli anni Sessanta. Io conoscevo tutti i musicisti fiorentini più vecchi di me. La differenza con via de Bardi è che qui comincia ad affacciarsi un concetto imprenditoriale della musica, non più riunione libera tra creativi, ma tempi stabiliti, selezione”.

La carriera musicale di Renzo Franchi va avanti, parallela all’impegno di maestro a San Donnino. Qualche anno più tardi è con Bobo Rondelli nell’Ottavo Padiglione, poi con Eddie and The Houserockers. Oggi ci sono i Radio Luxembourg, un gruppo che studia e recupera le radici del blues, e il quartetto Jazz & Eggs.

C’è la passione per la batteria passata al figlio, Federico, che da vent’anni gira il mondo suonando e che in questi giorni si trova a New York.

L’altro figlio, Matteo, è invece archivista all’istituto De Martino di Sesto Fiorentino, dove si documentano “la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”. Margherita, la figlia più giovane, è laureanda in architettura.

Le giornate di Renzo Franchi, pensionato della scuola, ma studente di musica a vita, si snodano tra Firenze, Colle Val d’Elsa (in Canonica) e l’isola d’Elba.

Qualche anno fa, nel 2019, la sua passione politica si è concretizzata in una candidatura a sostegno dell’attuale sindaco Pd Alessandro Donati, tra le fila di Sinistra Italiana. L’impegno è però sfumato a causa del successivo trasferimento a Firenze.

“A quindici anni suonavo la batteria per espellere un surplus di energia che mi avrebbe fatto male - conclude Renzo Franchi - negli anni questo si è trasformato in qualcosa di logico, come deve essere nel jazz. Mia moglie mi ha fatto il grande regalo di farmi ricavare una stanza insonorizzata in casa. E io, appena sveglio e ancora in pigiama, corro a suonare la batteria”.

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