“… Pigliavo il cappello e uscivo. Il paese, Poggibonsi, la sera era molto rumoroso; i caffè si empivano. Il fiumiciattolo che passava sotto il ponte presso la stazione scrosciava tra i sassi. Le ragazze a braccetto mi sfioravano con i gomiti; i ragazzi m'urtavano. Qualcuno, da una bottega, mi chiamava a bere. Io rispondevo sorridendo; e, secondo il caso, togliendomi il cappello e provando un piccolo brivido quando era qualche signore. A metà della strada, vedevo la finestra di cucina dove certo era la signora Costanza; e, allora, tornavo a dietro… Allora, passeggiavo per quelle strade più solitarie, dove si sentivano conversare soltanto le donne o strillar qualche ragazzo in fasce. Un organetto a mantice sonava sempre dentro un'osteria, il cui lumicino rosso aspettava gli avventori. Passando dinanzi, si sentivano le bestemmie mescolarsi, quasi fondersi, con quel suono allegro e stridulo che pareva la risata di un becero. Uscivo un poco fuori del paese, incontrando i contadini che tornavano con i bovi. Qualche donna a una finestra, qualche uomo silenzioso a fumar su l'uscio di casa. I campi, molto più alti della strada costruita tra due muri laterali, si coprivano d'ombre; i cani abbaiavano, i rumori della gente si attenuavano. Tornavo in dietro. Salivo in casa mia e speravo che la signora Costanza fosse andata a letto; ma invece era là, accanto a quel salotto, a leggere il Libro dei sogni; mentre i Tre Moschettieri erano chiusi nel mezzo della tavola, con un ferro da calza dentro per segnale delle pagine lette…”.
Così Federigo Tozzi, uno dei tre grandi narratori della prima metà del secolo scorso assieme a Svevo e Pirandello, ci descrive con poche note, ma colorite e realistiche, la Poggibonsi del primo novecento nella novella “Una sbornia”. Il racconto fu pubblicato per la prima volta nel 1915 sulla rivista abruzzese “La Grande Illustrazione”. Lui lo spedì a Sibilla Aleramo, collaboratrice della rivista, con un biglietto di accompagnamento nel quale esprimeva il desiderio di conoscere la celebre scrittrice. Fece poi parte della sezione “Giovani” delle sue raccolte di novelle.
E’ la storia di un amore controverso e scoperto tardivamente, di un fallimento, se si vuole, in linea un po’ con la visione pessimistica del Tozzi riguardo alla vita e alle sorti dell’uomo alle prese con le sue solitudini e i suoi difficili rapporti con gli altri, a cominciare da coloro che ci stanno vicini. Narra la vicenda di un impiegato delle ferrovie che lavora per un certo tempo a Poggibonsi, dove abita a pigione presso una vedova, la signora Costanza, che si occupa di lui facendogli anche da mangiare. Una volta trasferitosi, dopo qualche anno, sente improvvisamente, attraverso il ricordo del tempo passato in quella casa, una sorta di attrazione per quella signora che lo ha ospitato, che bella non è sicuramente, ma che è stata gentile con lui ed ha “una casa pulitissima”, tanto che, dopo non poche riflessioni e incertezze, decide di tornare a Poggibonsi per chiederle se lo vuole sposare. Quando vi arriva però scopre che la signora Costanza è morta. Perfino il piccione che le faceva compagnia è diventato zoppo. Solo il salotto è stato lasciato tale e quale dai parenti, ma lei ormai non c’è più. Prima di riprendere il treno incontra i vecchi compagni di lavoro, ai quali non ha il coraggio di dire il perché della sua venuta a Poggibonsi. Questi allora, credendo che sia venuto lì apposta per loro, lo portano a bere, e nella sbornia che consegue è tutta racchiusa la fine di un sogno incerto e tardivo e la condizione di solitudine del protagonista.
Quello presente nella novella “La sbornia” non è l’unico brano che lo scrittore senese dedica ad aspetti di vita della nostra città. Nel romanzo “Con gli occhi chiusi” ci dipinge ad un certo punto, con tutto il suo impietoso realismo, la figura di un barrocciaio di Poggibonsi, tale Pino, raccontandoci la durezza e insieme la miseria di tale lavoro, molto diffuso dalle nostre parti, data la caratteristica di centro stradale di Poggibonsi e i traffici e i mercati che vi si svolgevano. Così il Tozzi:
“… E Pino? Pino, il vecchio barrocciaio di Poggibonsi, era il più povero. Gridava, per ridere:
- C'è posto anche per me?
Tutti glielo facevano, non per cortesia, ma perché lo credevano pieno di pulci. Egli se ne avvedeva, ma non osava dir niente: brontolava un poco tra sé; e, siccome dovunque era trattato così, non se la prendeva.
- Mezzo posto mi basta a me. Non sono un signore io! Ah, come mi dolgono le ossa!
Un occhio non gli voleva stare aperto, e le palpebre battevano insieme come fanno quelle delle civette. Girava quell'altro occhio per tutta la stanza, lentamente; ricominciando sempre da capo. Si guardava bene le mani, per far capire agli altri che aveva pensato a lavarsele; e in fatti se l'era lavate nel secchio del suo cavallo mezzo stronco come le stanghine del barroccio, rinforzate con parecchie avvolte di funicella e di filo di ferro. Quanto tempo gli faceva perdere quel lavoro riaccomodato tutti i giorni! Si stropicciava gli occhi con un dito, con il viso ridente senza sapere perché: la sua bocca, con quel sorriso, pareva larga il doppio.
- Ridete voi, eh, boia! Che avete rubato oggi? Si piglia la roba delle commissioni e poi dice che l'ha persa per la strada.
- Io? Oh, poverino! Una volta lo facevo così, ma ora no.
Strascicava la voce con un accento, che sembrava sincero benché malizioso. E poi:
- Ho due figliole, a casa, da maritare! Son belle da vero, a dirvela in un orecchio. Ma la mia moglie è già ridotta come una balla di cenci unti, che non si piglierebbero né meno in mano. Ci ho quelle due figlie, povere bambine! O che devo fare io per loro?
Tutta la sua fisionomia pigliava una bontà umile ma ostinata; e, cosa strana, le sue guance, tra il pelo della barba rada, erano delicate come quelle di una donna.
Egli non ordinava, ma Domenico gli sceglieva tra la roba del giorno innanzi e gliene faceva un piatto solo. Lo pigliava per la tesa del cappello, quasi gli ci faceva battere il naso:
- Senti come ti ho servito?
- Sì, avete ragione, è stantia, ma non puzza tanto.
Adamo e Giacomino gli buttavano fette di pane o mezze frutta. Egli, senza guardarli in faccia, se le radunava più vicino, quasi avesse voluto metterle sotto il tondo del piatto, con ambedue le mani.
- Oh, oggi sto meglio!
Salutava con molto rispetto Anna, aspettando che gli rispondesse: e, certo, non si sarebbe messo a sedere prima. Tanto che Anna, quando se n'era dimenticata, doveva dirgli:
- Mettetevi a sedere!
- Ah, mi ci posso mettere? Credevo di dar noia oggi! Sono tanto stanco!
E aspettava, tenendo le mani insieme.
Da Pietro si faceva rispiegare, quasi una volta al mese, che cosa erano le due oleografie delle pareti. Pietro saliva in piedi su la panca, per non staccarle. Ma Pino diceva:
- Me le metta più vicino! Se sapesse, Pietrino, come mi bruciano gli occhi! Qualche volta ho paura d'accecare.
Una era la Battaglia di Adua e un'altra I fattori dell'unità italiana. E tenendolo, dopo, per una manica:
- Non dia retta al babbo, studi. Me ne intendo!
Pietro, allora, senza sapere perché, lo accarezzava.
D'inverno, quando era tutto infreddolito e bagnato, con il bavero della giubba fino alla cima degli orecchi, con il cappello su gli occhi, Pietro gli si faceva subito incontro; e, senza parlargli, gli metteva il viso tanto vicino, che Domenico lo tirava in dietro per il collo.
Morì presto; e nessuno se ne accorse…”.
(Da F.Tozzi: “Novelle” e “Con gli occhi chiusi”)