A Curtatone e Montanara, il 29 Maggio 1848, si scrisse sicuramente una delle pagine più belle ed eroiche del nostro Risorgimento. I volontari di Poggibonsi accorsi sul campo di battaglia pare siano stati venticinque. Di questi, due, Achille Becheroni e Ferdinando Bruschettini, non fecero ritorno.
Tra i combattenti, quel giorno, figura anche tale Tommaso Gherardi del Testa, nato a Terricciola, in provincia di Pisa, avvocato, laureatosi all’ateneo pisano, che viene ferito e fatto prigioniero dagli Austriaci. Una volta rimesso in libertà alla fine della I guerra di Indipendenza, Tommaso riprende a coltivare la sua vera passione, che, nonostante gli studi fatti, non è quella forense, ma quella della letteratura. Amante di Scott e Goldoni, scrive vari racconti e testi teatrali di un certo successo. Tra questi il racconto “La povera e la ricca”, del 1858, diverse pagine del quale sono ambientate a Poggibonsi e rappresentano una realistica fotografia della nostra città del periodo immediatamente precedente all’unità d’Italia.
Poggibonsi era allora un grosso borgo agricolo, anche se all’interno delle sue mura erano presenti molte attività artigianali. Ma soprattutto era centro stradale, commerciale e, da poco tempo, con l’inaugurazione della Ferrovia Centrale Toscana, anche ferroviario. Poggibonsi era nota per i suoi mercati del martedì, per le sue fiere rinomate e frequentate che richiamavano avventori da mezza Toscana, per le numerose feste religiose, per il palio dei cavalli che si svolgeva in occasione delle stesse, per il gioco del pallone e per le sue tante bettole, locande e osterie, dove si poteva trovare anche del buon vino.
Tommaso Gherardi in poche pennellate ci fa vivere quella che era l’atmosfera di allora, con descrizioni un po’ iperboliche in chiave umoristica, ma certamente non molto lontane da quella che era la realtà. Questa, ad esempio, la descrizione della fiera:
“… Placido e Geltrudina scesero alla stazione di Poggibonsi da una carrozza di prima classe, perché chi ha avuto un’eredità di mille scudi non deve mescolarsi tra la folla della terza, e neppure della seconda classe, molto più che quel giorno i vagoni della Strada Centrale erano, cosa insolita, pieni zeppi. Fiorentini, Empolesi, Castelfiorentinesi e Certaldini andavano a divertirsi alla fiera; poiché è opinione che alle fiere si prova un gusto matto, e sarà. Io per me non ce lo provo, ma tanto sta nel modo di vedere, e io forse vedo male. Capisco che il panorama di una fiera veduto da un’altura è bello, variato, ma scendete, avvicinatevi e me ne darete le nuove. Spinte di qua, spinte di là, bovi col campanaccio al collo che con la punta delle corna vi sfiorano il naso o vi sfondano il cappello, asini che vi ragliano all’orecchio, venditori di ogni genere che vi assordano, contadini che civilmente vi ammaccano le costole con le gomita, scarponi di dodici libbre che si appoggiano sul vostro piede, borsaioli che vi alleggeriscono le tasche, barocci, carri che minacciano ad ogni momento di schiacciarvi…”.
Eccoci quindi, fatta la fiera, all’osteria: “… Se non vi rassegnate e sperate di trovare, pagando, un buon desinare all’osteria, allora poi rischiate di fare la fine del conte Ugolino; perché in quei giorni di fiera le osterie son destinate a tutt’altro uso che quello di alimentare le persone, intendiamoci bene, quelle come voi o come me, perché per i contadini, per i fattori, per i mercanti di bestie è un’altra faccenda. Questa brava gente, appena ha fatto i suoi interessi, siano le undici o mezzogiorno, prende d’assalto l’osteria e non lascia vuoto il più piccolo ripostiglio. E polli, bistecche, fette di manzo, minestre, tutto è divorato in un fiat…”, ma la musica, a dire di Tommaso Gherardi, non cambia: “…C’è la corsa dei cavalli. Voi che siete andato per divertirvi e che avete speso per tale scopo volete veder la corsa e correte all’ora indicata; ma sì, il circo o lo stradale per il quale devon correre i barberi è tutto invaso da quelli stessi che avevan preso d’assalto le osterie, perché, al solito, quella brava gente, pieno che hanno il corpo, corron subito a pigliar posto a costo di star due ore sotto la sferza del sole. In sostanza corrono i cavalli e voi non vedete di loro che la punta delle orecchie…”.
La giornata si conclude alla stazione, per il ritorno, ma anche qui brutta sorpresa:
“… Avete già il vostro biglietto in tasca per il ritorno, e siccome manca un quarto alla partenza ve n’andate là col vostro comodo. Giungete, la stazione è chiusa ed una folla compatta ne assedia la porta, e bussa e picchia, ma inutilmente, ché quei di dentro fanno orecchie da mercante. Passano i minuti, passa il quarto, si ode il fischio della locomotiva, suona la campanella, vivaddìo, permìo, giurammìo! Sì, giurate quanto volete, il vapore parte senza di voi. E perché ciò? Perché, sempre al solito, i contadini, i fattori, i mercanti, i venditori avevano occupato tutti i primi posti, ed il treno non poteva portar tutti in una volta. Bisogna rassegnarsi ed aspettare il ritorno. Son le ventiquattro, avete un’ora, due ore, tre ore secondo le distanze, da passare in un paese che non offre più se non che l’aspetto di un campo dopo la battaglia…”.
Fatta la dovuta tara alla descrizione del Gherardi, tutto si potrà dire della Poggibonsi di allora, ma non che fosse una cittadina sonnolenta e priva di vita.
(V. anche Burresi-Minghi: “Poggibonsi dal primo novecento al fascismo” - 2016)
In copertina il mercato degli animali in Piazza Mazzini