Poggibonsi ha dedicato molte vie alla memoria di suoi cittadini illustri: a Pietro Burresi, a Carlo Iozzi, a Gaetano Pieraccini, a Giorgio Riesci e via dicendo. Non risulta che vi sia una strada dedicata alla memoria di Giovanni Norchiati.
Eppure il Norchiati è ricordato come grande linguista, soprattutto per il suo “Trattato dei dihpthongi toscani”, scritto a difesa della lingua toscana ed in polemica con alcuni scrittori “strani”, cioè forestieri, primo tra questi Pietro Bembo, che stavano cimentandosi nell’uso di tale lingua apportandovi alcune inopportune alterazioni.
Nato a Poggibonsi sul finire del ‘400 da Michele di Giovanni, il Norchiati si trasferisce già da ragazzo a Firenze, dove diventa prima cappellano in Orsammichele e pedagogo nelle case Lanfredini e Pandolfini, quindi, nel 1520, maestro presso la scuola per chierici della basilica di S.Lorenzo. Come insegnante pare non abbia avuto una condotta irreprensibile. L’anno dopo, nel 1521, viene infatti allontanato dall’insegnamento per essere stato “negligente, benché di buona lettura e costumi e per essere in altre cose occupato”. Essendo anche esperto di musica, l’anno dopo ancora, il 1522, viene tuttavia eletto rettore della Cappella corale di S.Maria e S.Giuseppe. Anche in tale carica subisce alcuni provvedimenti disciplinari per non aver svolto alcuni servizi e per aver “detto villania” al canonico Pier Francesco Giambullari e aver “reiterato a lui molte ingiuriose parole”.
Sicuramente è a Poggibonsi nel 1527, probabilmente per sfuggire alla peste che stava dilagando in Firenze. A Poggibonsi aveva una casa e molto probabilmente un terreno, in quanto ottiene una volta un permesso per poter curare la vendemmia in un suo fondo. A Poggibonsi lo raggiunge il nipote, il più celebre Angelo di Michele, detto il Montorsoli, che vi si trattiene del tempo, ospite dello zio. E’ proprio grazie al nipote, secondo quello che narra il Vasari, che il Norchiati ottiene nel 1533 il canonicato in S.Lorenzo a Firenze. E sempre nello stesso anno, ancora grazie al nipote, stabilisce un rapporto di amicizia con Michelangelo, quando questi riprende i lavori in S.Lorenzo ed ha tra gli scultori che lavorano al suo cantiere, appunto, il Montorsoli. ? forse a causa di questo contatto con Michelangelo che si spiega il suo interesse per Vitruvio, di cui si accinge a tradurre il “De Architectura”. Si reca addirittura a Roma, sempre nel 1533, per discutere con Michelangelo di tale traduzione.
Ma l’interesse del Norchiati prende poi un’altra direzione, quella degli studi linguistici. Esce così, nel 1538, quel “Trattato dei dihpthongi” di cui dicevamo prima, stampato a Venezia per Giovann’Antonio Niccolini ad istanza di Marchiò Sessa editore. La marca editoriale rappresenta un gatto che passa con un topo in bocca, sotto il quale si legge il motto latino “Dissimilium infida societas” (La compagnia dei dissimili è infida), motto della famiglia napoletana Della Gatta, ripreso poi dall’editore Sessa.
Due anni dopo entra come “primo arroto”, cioè come membro aggiunto ai dodici fondatori, nell’Accademia degli Umidi, di cui fa parte anche Anton Francesco Grazzini, di Staggia, che aveva preso il nome di Lasca. Il Norchiati prende quello di Lacrimoso, secondo la regola che imponeva agli iscritti di assumere un nome che avesse una qualche attinenza con l’acqua.
Norchiati muore nel 1541, il 30 Gennaio, ma da una lettera scritta pochi giorni prima di morire, il 22 Gennaio, a Benedetto Varchi sappiamo che stava lavorando alacremente ad una grande raccolta di tutti i vocaboli ed espressioni lessicali in uso a Firenze, soprattutto riguardanti il mondo delle arti e dei mestieri. Pare che fosse andato per botteghe e laboratori artigiani a raccogliere migliaia di vocaboli ed espressioni riguardanti il lavoro e i suoi strumenti, che poi avrebbe voluto elencare nel suo “Vocabolario de’ vocaboli spettanti tutti i mestieri, anche quelli più meccanici", corredandoli anche di disegni illustrativi.
Nella suddetta lettera il Norchiati sembra divertirsi alla scoperta di sempre nuovi vocaboli e modi di dire, quando scrive:
“Dico che voi non vi meravigliate punto se alquanti verbi o nomi ci sono che voi non gli sapete, perché quantunque uno sia nato e allevato in quella Città, non sa egli però ogni cosa, e questo lo pruovo in me, il quale, benché nascessi In Poggibonzi, pure venni piccolo fanciullo ad abitare in Firenze, dove sono allevato e stato circa quarant’anni continui, e nel cercare questi vocaboli ne ho imparati da otto mesi in qua parecchie centinaia che non gli sapevo”.
E Norchiati non si scandalizza dei neologismi, magari di derivazione o importazione, purché usati ormai comunemente a Firenze. Scrive infatti:
“Non mi dà noia se il ‘grillare’ è ancora latino, che so molto bene dove Ovidio lo mette; egli è ancora nostro, ché non è fantesca a Firenze che non l’usi, benché in altro significato che in latino, e diciamo ‘la pentola grilla’ quando bolle lentissimamente, il tegame ‘grilla’, quando al poco fuoco bolle. Se Firenze è in Toscana, bisogna che quello vocabolo sia toscano, perché si usa frequentissimamente a Firenze…. ‘Scoccoveggiare’ è fatto dal suono che fa la civetta quando canta e grida a modo suo, che par ch’ella dica ‘scoccoveggia, scoccoveggia’…Ora s’egli è Sanese non mi dà fastidio alcuno; anco Siena è in Toscana. Quando mi ci venisse posto qualche vocabolo proprio Sanese non farei contro all’intenzione mia, né anco se fosse Latino o Lombardo o Francioso. Un vocabolo non mi dà noia il dichiararlo, purché si usi oggi a Firenze…”.
Nella lettera racconta di essere già arrivato a 2.500 vocaboli raccolti. Purtroppo non è rimasta traccia di tale lavoro.
Norchiati, grande estimatore dei grandi trecentisti toscani, volle cimentarsi anche nell’arte poetica, ma di lui ci sono rimasti solo alcuni versi rintracciabili presso la Biblioteca Vaticana, intitolati “Da poi che mosse ‘l primo amore il cielo”, che si riportano qui sotto e che trattano il problema dell’uomo di fronte alla morte:
Da poi che mosse ‘l primo amor il cielo
e diè principio al moto ch’è nel tempo
onde deriva agli animi la vita
con varia sorte ove piacque alle stelle
chi in acqua, in aria, alcun’ in verde selva
finché destrutto sia dall’aspra morte
non fu mai udita sì crudel la morte
quando ver noi è più turbato ‘l cielo
né più crudel unqua fiera per selva
da fame spinta a predar d’ogni tempo
nel ciel mai volse più crudeli stelle
nimiche al tutto dell’humana vita.
Né mai si corse per più trista vita
da quel ch’aspetta ogn’hor la dura morte.
Ma così voglion le malvage stelle
ch’hanno acceso ver noi l’ira del cielo
né mai fu più sì nubiloso ‘l tempo
né tante fiere mai… le selve.
Quest’ingrombrat’hanno la bella selva
facendo amara a ciaschedun la vita
che si rivolve in sì turbato tempo
onde cercando va l’acerba morte
fuor di speranza di salire al cielo.
Ahi dure , inique e dispietate stelle
tempo è da ricercar più chiare stelle
che fuor ne tragghin d’est’oscura selva
seguendo ‘l vivo lume ch’è nel cielo
dove si truova la felice vita
che fa sicur dalla superba morte
per lungo spatio d’infinito tempo.
Deh fussi homai venuto ‘l dolce tempo
che ne conduce a sì benigna…
il corpo lasciarei lieto alla morte
e volerei a sì fiorita selva
in cui sempre beata è poi la vita
che si rinnuova nel più alto cielo
Cercar vo’ ‘l ciel ov’è più chiaro ‘l tempo
tranquilla vita e più pietose stelle
più… selva e non si tem’ la morte.
La scomparsa di Giovanni Norchiati fu compianta in un sonetto scritto da Benedetto Varchi e indirizzato a Carlo Strozzi e dalla risposta, ancora in versi, di quest’ultimo. In entrambe le composizioni si mette in evidenza la bontà d’animo dell’amico scomparso e la sua non comune capacità di oratore e scrittore: “… che rado sia / chi voglia o possa nel volgar Latino/ tanto giovar con voce e con inchiostro”.
(V. M.Minghi “Poggibonsi - I personaggi storici”; Burresi-Minghi “Poggibonsi dalla distruzione di Poggiobonizio al ‘700”; Bibl. Vaticana, Vat.Lat.5225 II c.377 r.v.)