Nella fabbrica di paste da minestra di Giovanni Mangani a Poggibonsi si lavora fino a 12-13 ore per 1 lira e 70 centesimi al giorno, tanto da sopravvivere, ma una miseria, considerato il numero delle ore di lavoro. Un giorno il sor Giovanni convoca gli operai per dire loro che i casi sono due: o licenzia uno di loro o si adattano a ricevere 1 lira e 50. Prendere o lasciare. E gli operai rispondono che non vogliono condannare nessun compagno alla fame, per cui accettano la riduzione di paga.
Detto così il fatto potrebbe sembrare una sconfitta dei lavoratori, ma in realtà allora una decisione del genere rappresentò una vittoria, una presa di coscienza di classe, di una classe, quella operaia, che stava crescendo ed imparando a camminare con le proprie gambe. Il fatto narrato avvenne nel 1877. A Poggibonsi esisteva già dal 1861 una Società Operaia di Mutuo Soccorso, che aveva svolto un compito importante di assistenza in caso di malattia o infortunio, ma, come osserva lo storico Giorgio Mori, essendo gestita dalla stessa classe padronale, o comunque abbiente, aveva nel contempo lo scopo di controllare la classe lavoratrice onde evitarne una deriva in senso rivoluzionario e socialista, proprio nel momento in cui le idee del socialismo si andavano diffondendo in tutta Europa e nella stessa Poggibonsi, assieme al richiamo, molto forte, dell’anarchismo di Bakunin e Andrea Costa. Negli anni ’70 si costituì infatti a Poggibonsi una sezione dell’Internazionale e proprio l’anarchico romagnolo fu delegato a rappresentare tale sezione al congresso di Ginevra del 1872.
Nonostante i tentativi dei moderati di tenere a freno la classe operaia, questa prese gradualmente coscienza dei propri diritti, delle rivendicazioni da portare avanti, del fatto che l’unione faceva la forza e che occorreva contare sui propri mezzi per ottenere qualcosa di concreto. Questo fatto spiega il graduale calo di iscritti alla Società Operaia di Mutuo Soccorso, che passarono dai 612 del 1863 ai 437 del 1878. Ulteriore crescita dal punto di vista organizzativo si ebbe quando molti seguirono il Costa e il Merlino nel loro processo di passaggio dall’anarchismo al socialismo organizzato in partito, e quindi all’accettazione della competizione politica ed elettorale, che meglio permetteva realisticamente di ottenere qualcosa di concreto.
In questo quadro si inserisce la creazione, nel 1887, della società operaia “Figli del Lavoro”, che nello statuto di dieci anni dopo trovò una precisa identità. La società si dichiarava “aliena alle meschine gare della politica”, ma nel contempo si legge nel suo statuto che non sarebbe stata mai “indifferente alle rivendicazioni di quei diritti politici che la classe operaia ha diritto di vedere a lei restituiti”. I suoi scopi fondamentali erano “la previdenza, l’aiuto fraterno e l’istruzione reciproca”.
Soprattutto quest’ultimo punto era ritenuto fondamentale, e il concetto veniva infatti ribadito più volte nello statuto: solo con l’istruzione gli operai avrebbero potuto dire la loro e non essere più ingannati. La lotta all’ignoranza si esplicò così nella creazione di scuole popolari e serali, nell’organizzazione di conferenze educative ed adunanze, nella circolazione di libri di letteratura a sfondo sociale e popolare. Non era, quella della società “Figli del Lavoro”, una lotta solo per il pane quotidiano, ma per il diritto “ad un più alto grado di umana dignità e di giustizia sociale”, come si legge nelle pagine dello statuto.
Il cambio di passo in corso è evidente in uno dei primi articoli dello statuto stesso, che prevedeva l’iscrizione alla società solo dei lavoratori salariati, con l’esclusione di tutti gli appartenenti ad altre categorie sociali: “I propri affari per farli bene - si legge - bisogna farli da sé e per apprendere a fare il proprio interesse è d’uopo incominciare a pensare con la propria testa, poiché è improvvido e insensato il gettarsi nelle braccia di chi non prova né sente i bisogni del popolo lavoratore” E ancora: “Gli operai intendono uscire dalla tutela di quella classe che li ha sempre ritenuti incapaci di qualsiasi funzione, come di qualsiasi diritto”.
L’art. 9 è particolarmente interessante, in un periodo in cui molti lavoratori, abbrutiti dalle dure condizioni di lavoro e di vita, a volte dilapidavano nel vino, all’osteria, quel poco di salario settimanale. Si legge infatti che i primi doveri di un iscritto alla società Figli del Lavoro erano i seguenti:
1) di essere onesto, veritiero e giusto con tutti
2) di condurre vita costumata e laboriosa
3) di istruirsi e far istruire i propri figli
Un anno dopo della promulgazione di questo statuto sorse, come emanazione spontanea della società, anche una Società Cooperativa di Consumo “Figli del Lavoro”, con lo scopo di “acquistare all’ingrosso per ripartirli al minuto a prezzo minimo di mercato e in giusta misura ai propri soci i generi alimentari di prima necessità”. La Cooperativa di consumo fu registrata in Poggibonsi il 1 dicembre 1897 nella sala della società “Figli del Lavoro” posta in via Montorsoli 31 per mano del notaio Nestore Brunori e di questa si riporta in una foto allegata l’elenco dei soci fondatori.
Parallelamente alla “Figli del Lavoro” sorse anche una “Società operaia di mutua assistenza dei conciapelli”, anch’essa con un proprio statuto, mentre sul finire del secolo XIX e l’inizio del sec. XX prolificarono poi, come organizzazioni di lotta per i diritti sociali, le cosiddette “leghe”, in rappresentanza delle più varie categorie: terrazzani, facchini, calzolai, impagliatrici di fiaschi, barrocciai, braccianti, muratori ecc…
(V. G. Mori “La Valdelsa dal 1848 al 1900” - Statuto della Società Operaia Figli del Lavoro - Statuto della Società anonima Cooperativa di consumo Figli del Lavoro - Caciagli M. “La lotta politica in Valdelsa dal 1892 al 1915”)
Nell'immagine: copertina dello Statuto della società operaia e della cooperativa di consumo