Giovanna, nipote di Roberto d’Angiò, re di Napoli, aveva solo sette anni, quando, nel 1333, venne firmato il suo contratto di matrimonio che la legava al cugino Andrea, secondogenito del re Carlo, del ramo angioino di Ungheria, che di anni ne aveva appena sei. Un matrimonio tra bambini, che si giustificava con il fatto che Giovanna aveva perso ad appena tre anni il padre, a sette la madre, e così era diventata la futura erede del regno di Napoli alla morte del nonno. Morte che avvenne nel 1343, quando Giovanna era appena diciassettenne.
I caratteri di Giovanna ed Andrea erano però molto diversi: colta e raffinata la prima, rozzo ed ignorante il secondo. I dissapori, le incompatibilità non tardarono ad affiorare, accentuati dal fatto che Giovanna non ne voleva sapere di condividere il regno con il cugino-marito, per tener fede alla volontà del nonno, che l’aveva designata come unica erede.
Le cose precipitarono quando Andrea fu assassinato ad Aversa, due anni dopo, nel 1345, nel corso di una congiura e gettato poi da una finestra, a simulare un suicidio. Giovanna fu sospettata e accusata di aver ordinato la morte del marito, anche se lei si dichiarò innocente e fece arrestare e giustiziare gli esecutori materiali dell’omicidio. Questo non bastò tuttavia a convincere il fratello maggiore di Andrea, Luigi (Ludovico in croato e slovacco), salito nel frattempo ad occupare il trono di Ungheria, e a placare la sua voglia di vendetta per la morte del fratello.
Fu così che Luigi organizzò ben due spedizioni punitive nel Regno di Napoli, la prima nel 1348, durante la quale fece decapitare il cognato di Giovanna e deportare in Ungheria alcuni parenti che riteneva responsabili dell’omicidio del fratello, dopodiché dovette lasciare in fretta e furia il napoletano, perché lì stava infuriando l’epidemia di peste nera. La seconda spedizione avvenne nel 1350, ma si concluse anch’essa repentinamente, data anche l’opposizione della popolazione locale che Luigi aveva oberato di tasse, con una serie di trattative che costrinsero il papa ad indagare ancora sulla colpevolezza o meno di Giovanna, dalla quale Luigi pretendeva ora 300.000 fiorini d’oro per riscattare i parenti prigionieri in Ungheria. Giovanna, dopo una vita movimentata e altri tre matrimoni, finì anni dopo anche lei assassinata per aver scelto la parte sbagliata nella contesa tra papi sorta in occasione dello Scisma d’Occidente ed aver parteggiato per l’antipapa francese, ma questa è un’altra storia che non riguarda da vicino la nostra città.
Luigi, invece, dopo la seconda spedizione tornò ad occuparsi dei problemi del suo regno, ma alcune delle sue soldataglie decisero di restare in Italia e andarono ad aggiungersi alle già numerose truppe mercenarie straniere che scorrazzavano nel trecento per la penisola creando panico e sconcerto un po’ ovunque, mettendosi al servizio dell’uno o dell’altro stato e inventandosi a volte la guerra anche laddove non vi fosse. Tali bande armate ungheresi presero il nome in Italia di Magna Societas Hungarorum. Altre milizie ungheresi furono mandate in missione ufficiale negli anni successivi in Italia dal re Luigi d’Ungheria a sostegno del papa Urbano VI durante il citato Scisma d’Occidente, nel 1380, proprio l’anno del “Patto di Calcinaia” , oggetto di questo articolo.
Molte città italiane nel trecento avevano dovuto sborsare grosse somme di denaro alle varie compagnie di ventura per evitare assedi o saccheggi, altre volte avevano visto i loro territori devastati dalle tante milizie di passaggio. In tal senso si spiega quindi il patto rogato a Poggibonsi, in località Calcinaia, nel campo degli Ungari.
Giuseppe Canestrini nella sua raccolta di “Documenti per servire alla storia della milizia italiana dal XIII a XVI secolo”, edita in Firenze nel 1851, riporta un atto nel quale si legge che in data 10 ottobre 1380, “in burgho et villa Calcinarie, comunis Podiobonizi”, dove erano accampate le truppe ungheresi, al tempo del pontificato di papa Urbano VI, fu rogato un importante patto per salvaguardare alcuni comuni dell’Italia Centrale. Alla stipulazione del patto erano presenti quel giorno, si legge, in Calcinaia, il condottiero ungherese Giovanni Maconiese, avente il titolo di “Bano”, ossia capitano generale e luogotenente del Re di Ungheria, altri quindici capitani e cavalieri ungheresi ed alcune importanti loro personalità, gli ambasciatori del Papa, quelli del Comune di Firenze e ben due interpreti, tali Andrea Ghiorde de Capronza di Ungheria e Francesco Dentiz, di Napoli, che traducevano dal latino, al fiorentino volgare, all’ungherese, anche se, pare che il bano Giovanni fosse colto e parlasse correttamente il latino.
Il patto previde che le truppe ungheresi, prima del ritorno al loro paese (il che avvalora la tesi che si trattasse proprio delle milizie mandate in missione a sostegno del papa Urbano VI espressamente dal re di Ungheria, più che di soldati mercenari) non avrebbero “offeso o molestato” i territori e i comuni di Bologna, Perugia, Pisa, Lucca e paesi loro sottoposti, né il Comune di Firenze e paesi ad esso collegati, e non avrebbero recato danno ad alcuno. Non solo, ma per attraversare tali territori avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione dei Priori e del Gonfaloniere di Giustizia di Firenze o dei rappresentanti dei vari Comuni interessati al transito delle truppe.
Il patto fu rogato dal giudice e notaio imperiale Ser Ristoro, figlio di ser Jacopo, fiorentino, ma nativo di Figline Valdarno, uno dei capostipiti, come si capisce dal nome, della casata Serristori, giudice famoso, oltre che benefattore, in quanto alla sua morte lasciò 2000 fiorini perché a Figline, nella sua città natale, fosse eretto un ospedale. Ser Ristoro ricoprì a Firenze anche importanti cariche pubbliche. Il redattore dell’atto stipulato in Calcinaia fu un altro giudice e notaio imperiale, tale Antonio del maestro Pietro di Firenze.
(V. anche Burresi-Minghi “Poggibonsi dalla distruzione di Poggiobonizio al ‘700” – 2018)
In copertina la regina Giovanna I di Napoli; il re Luigi I di Ungheria in una miniatura d’epoca