È probabile che non sia una di quelle domande che ci passa per la mente, né una di quelle per cui si rende urgente una risposta. Ma nel caso ci fossimo chiesti se un criminale possa nascondere un’umanità tanto forte da farti piangere di commozione, potremmo aver trovato una persona in grado di dircelo.
Giovanni Iozzi, colligiano trasferito in Piemonte nella valle dei valdesi, ha fatto della propria vita un’occasione per aiutare gli altri, cercando di riportare alla vita civile in particolar modo carcerati e tossicodipendenti. Laureato in filosofia, è in Africa per seguire un progetto europeo finalizzato al recupero dei minori nelle carceri del Burkina Faso, per quelli contagiati da Aids in Costa d’Avorio e per le vittime del traffico di bambini in Marocco, quando incontra il gruppo Abele, che lo porterà dritto fino alla cooperativa Arcobaleno di Torino, con la quale collabora da oltre trent’anni, anche ora che è in pensione.
“Sono a contatto ogni giorno con ex carcerati e tossici - racconta - tutte persone con cui non è facile avere a che fare. Sono sospettosi, hanno ferite interiori da nascondere, e tendono a chiudersi davanti agli altri. Eppure con me si aprono, mi confidano le loro storie, anche quelle più indicibili. E io non posso che essere grato per tutto questo. Non potrei desiderare niente di più dalla vita. In fondo anche io sono stato un ragazzo di strada, nella mia gioventù colligiana, e forse è proprio questo che fa scattare il contatto. Mi sentono simile, uno che può capirli, offrendo loro una spalla senza giudicarli”.
Nel passato di Giovanni, dopo la Colle dei Quattro Cantoni e la vita raccontata nel suo primo libro, “Ragazzi di fiume”, ci sono i paesi più poveri e disagiati dell’Africa, c’è il gruppo Abele con don Ciotti, c’è Alex Zanottelli. C’è una ricerca del male da trasformare in bene, tramite un’anima vagabonda, una mente curiosa che si affaccia al mondo nella sua vastità e alla ricerca della profondità in ogni essere umano.
Ci sono tante storie di bambini e non solo, che in qualche modo hanno scalfito il suo cuore portando al tempo stesso nuova ricchezza.
Uno di questi è Roberto K., il protagonista del suo ultimo libro, “Volevo solo essere voluto bene”.
“Per me lavorare alla sua storia è stata una sofferenza immane - racconta -. Specialmente quando l’editore mi ha chiesto di rimetterci le mani per ridurlo di circa la metà. Non me la sono sentita. Per fortuna l’amico Andrea Bozzo, che si era già offerto di illustrare il volume con i suoi disegni, mi ha detto che la sua compagna, Deborah Gambetta, giornalista e scrittrice, avrebbe fatto volentieri questo lavoro al posto mio. Così alla fine siamo riusciti a portare a termine il progetto e ora il libro, pubblicato da Primamedia editore, è in libreria”.
Roberto K., dove la kappa sta per Killer, soprannome con il quale era conosciuto negli ambienti criminali, è un ragazzo di strada, vittima di un padre violento che ha causato la fuga della madre e che incita il primogenito a picchiare Roberto, quarto di cinque figli.
Per salvarsi Roberto a 14 anni pensa di uccidere il padre. Invece scappa di casa, approfittando di un periodo in cui l’uomo è in carcere.
Dorme sulla panchina di un parco, si riscalda accendendo dei fuochi, rubacchia qua e là per mangiare. È così che finisce a lavorare per un boss, facendo rapine che lo portano a maneggiare cifre enormi di soldi che non riesce a gestire e perde quasi subito.
Nei criminali che per la prima volta gli fanno sperimentare una sensazione di rispetto e considerazione, crede di trovare la famiglia che non ha mai avuto. Per questo, pur sperimentando più volte il carcere, non tradirà mai i suoi compagni.
Ma Roberto non è solo un delinquente e un tossico. Se ne accorge una operatrice sociale che pian piano lo convince a trasferirsi in una comunità di recupero. Qui Roberto impara il valore del lavoro, fa la raccolta della carta per la cooperativa, e scopre il senso di una vita vissuta nell’onestà e nella solidarietà. Purtroppo, oltre a scoprirsi sieropositivo, gli viene diagnosticato un tumore incurabile.
Sapendo che morirà presto, Roberto decide di raccontare la sua vita a Giovanni, perché la faccia conoscere. “Perché se riuscissi ad essere d’aiuto anche solo a uno di questi ragazzi sbandati, sarei felice, mi sentirei utile. Io non voglio raccontare che sono stato un bullo per vanità, quello che voglio far capire è che io sono stato uno di quei ragazzi lì che fanno reati, e che magari, come me, si ritrovano a fare quel tipo di vita perché non hanno le amicizie giuste, o perché si sentono soli, o perché hanno bisogno di trovare un posto nel mondo o perché non hanno una famiglia alle spalle e allora si appoggiano a chiunque perché, minchia, almeno così una famiglia ce l’hanno, se la possono inventare come è successo a me”.
A Giovanni riesce difficile parlare di Roberto K. senza commuoversi al pensiero di quest’umanità fiorita in una vita allo sbando e che lo ha fatto apprezzare, anzi voler bene, da tutti coloro che si sono trovati a contatto con lui nell’ultima parte della sua vita.
Per quanto riguarda il resto, Giovanni continua a dividersi tra il lavoro alla cooperativa torinese, dove sono ormai in 350, la casetta sui monti e i vecchi amici di Colle.
Ogni anno organizza un viaggio per portare i suoi ragazzi nel mondo. Gli uffici della cooperativa lavorano per dotare ognuno di passaporto e per risolvere i problemi legali ed economici che ognuno di loro si porta dietro.
Grazie a una collaborazione con la Scuola Holden hanno frequentato un corso per parlare in pubblico, esprimendosi ognuno con una propria performance nella serata di fine anno.
Gli studenti della Holden, poi, salgono sui camion della raccolta della carta per raccontare le loro storie di vita. Gli iscritti allo Iaad (istituto di arte applicata e design) disegnano invece abiti ispirati a queste stesse vite.
“Sono tutte cose che permettono loro di ritrovare la dignità necessaria per riavvicinarsi alla vita civile - dice Giovanni -. Al terzo Forum Mondiale dello Sviluppo Economico Locale hanno incontrato Ban Ki-moon, il segretario delle Nazioni Unite, al quale hanno consegnato la carta dei loro diritti. Io posso solo ritenermi fortunato, ma tanto, per poter vivere tutte queste cose insieme a loro”.